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Eventi
The food of love
Per orchestra

prima esecuzione: 23-03-2015
organico: Grande orchestra (ottavino, 2 flauti, 2 oboe, corno inglese, 2 clarinetto, clarinetto basso, 2 fagotti, controfagotto, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, tuba, timpani, percussioni (3 esecutori), pianoforte/Celesta (1 esecutore), arpa, archi
edizione: Sonzogno
durata: 20 min
luogo: Milano
esecutori: Orchestra filarmonica del Teatro alla Scala di Milano - direttore Daniele Rustioni
presso: Teatro alla Scala
Potente e suadente è la perorazione del Duca Orsino che sigla l’inizio della commedia shakespeariana “La dodicesima notte”: If music be the food of love, play on, /Give me excess of it, that, surfeiting,/ The appetite may sicken, and so die,/That strain again! It had a dying fall,/… Perorazione che ho ardentemente fatto mia ed è il “motore segreto” dell’invenzione musicale, “bussola” per tracciare una trama sonora allusiva e disvelante.

La dichiarazione shakespeariana che “la musica è il cibo dell’amore” mi sembra particolarmente pregnante riguardo al grande tema dell’Expo milanese, che proprio sull’alimentazione accentra il suo interesse; certo, il “cibo” di cui parliamo è immateriale e serve a saziare i sensi, l’intelletto e (forse?) l’anima, piuttosto che il corpo. Ma, se è vero che l’Amore è il motore di tutto, che sia proprio la musica a esserne l’alimento, è certamente fonte di gioia ed entusiasmo per il musicista, chiamato in prima persona a placarne l’appetito, fino alla sazietà.
Ma, a ben vedere, la dichiarazione shakespeariana che “la musica è il cibo dell’amore”, si può leggere essa stessa come definizione proprio dell’arte musicale: ne indica la finalità ma soprattutto il “luogo” in cui essa può esercitare (ed eccitare) le proprie potenzialità, cioè – proprio come l’Amore – nei “sensi”. Fatta della medesima materia dell’Amore, la Musica sollecita i sensi e attraverso questi, scuote la ragione; l’Amore e il suo “nutrimento”, la Musica, vivono radicalmente l’ambiguità di questo rapporto, un rapporto fatto di reciproche scosse, in cui l’equilibrio che via via si costituisce è sempre fragile e non durevole.
La perdita di un linguaggio musicale universalmente accettato ha ulteriormente radicalizzato la “polarità” “senso e intelletto”, generando opposti estremismi (una musica vacuamente edonistica, da una parte e una gelidamente intellettualistica dall’altra) che spesso negano al pubblico quella “scossa” che forse è l’intrinseca, magica e specifica qualità della Musica (e dell’Amore?).
Alla mia musica, così come a quella di qualsiasi altro musicista, è negata la possibilità di “raccontare” una storia, l’astrazione in cui l’arte musicale vive non contempla questa possibilità: i suoni non sono parole, non possiedono un’immediata evidenza di significato; ma possono diventare potenti nell’“evocare” una storia, un’emozione e perfino un concetto. Questa consapevolezza è, da sempre, la “pietra angolare” della mia ricerca musicale, che mi ha portato con naturalezza a considerare la forma musicale come “discorso”; discorso che deve essere sempre chiaro, avvincente e convincente. Per connotare il discorso su un piano squisitamente musicale c’è bisogno di un concetto che non fa parte del classico lessico musicale: il gesto. Un gesto non è un elemento melodico, né armonico, né ritmico; non è nemmeno un timbro strumentale, ma un insieme di tutti questi elementi, che rimane riconoscibile pur variandolo o modificandolo in parte. Una composizione è una concatenazione di più gesti d’intensità variabile, che seguono una congetturale scala graduata che dalla perentorietà via via arriva fino all’elusività; i “gesti” possono essere trattati per associazione, per contrasto, per opposizione, al fine di creare una forma musicale “aperta” e non “precostituita”, ma chiara, percepibile e transitiva. Il “discorso in musica” che ho in mente, ha una natura eminentemente drammaturgica, in cui i “gesti”, a secondo della loro natura, interpretano un ruolo drammatico, sono “attori” immateriali, evocatori di sentimenti, ricordi, concetti ma anche di testi letterari. Il rapporto con un testo letterario (quello shakespeariano, nel caso specifico) non deve essere necessariamente “illustrativo” ma piuttosto “affine”, “solidale”, volto al mutuo disvelamento. Una sorta di impossibile “tracciato di elettrocardiogramma” che scruta, seguendone l’attività emotiva, il cuore del testo.
“The food of love” è un brano sinfonico in tre parti, sebbene i movimenti si susseguano senza soluzione di continuità. Un ampio “Vivace”, diviso in due parti, principia la composizione: veloce, floreale, tintinnante, ha il ritmo della commedia shakespeariana, allegro ma venato di malinconia. Rapide figure degli strumenti più acuti (ottavino, flauti, clarinetto piccolo, glockenspiel, arpa…) creano un continuum sonoro spezzato, a tratti, da brevi interventi degli ottoni, evocatori di arcane fanfare. Un gesto perentorio, una rapida scala ascendente di otto suoni, sigla l’inizio di ogni segmento del brano; il gesto ha l’intonazione lignea dello xilofono e del templeblock.
Al “Vivace” succede un “Adagio con impeto” dai toni più drammatici; dal pieno orchestrale si staccano ampi “a solo” delle prime parti, caratterizzati da un notevole tasso di virtuosismo. Alla ribalta si succedono prima il clarinetto, quasi “concertante” per un abbondante tratto di movimento, poi la viola, quindi il violoncello e infine l’arpa; l’intervento degli ottoni ancora una volta delimita le varie sezioni, ma le fanfare “immaginarie” del primo movimento si sono tramutate in contrappunti più duri e petrosi. Tutta l’energia accumulata durante il movimento si scarica finalmente in un fortissimo di tutta l’orchestra e sul suo lento dissolversi s’innesta il terzo episodio del brano, “Prestissimo”, una sorta di “scherzo”, ma diafano e sussurrante; costruito sulla figura della “ripercussio”, che è affidata agli archi in una zona sonora piuttosto inconsueta: oltre il ponticello. Un suono impalpabile ma vetroso caratterizza questa sezione del brano che rimane sussurrante fin quasi verso la fine, dove a poco a poco si rinvigorisce fino ad arrestarsi su di un accordo in fortissimo di tutta l’orchestra. Sull’eco di quest’ultimo accordo s’inserisce una virtuosistica cadenza del violino solo, che porta all’ultima e definitiva variante del gesto iniziale, la scala ascendente di otto suoni. Un ultimo bisbiglio degli archi conferma, senza enfasi, la fine del brano.
Ho cercato di costruire tutto il brano con un materiale musicale minimo: la già citata scala ascendente di otto suoni e un poliedrico accordo formata da sette suoni (la sovrapposizione di un accordo maggiore e una settima di seconda specie). La continua combinazione e variazione di questi due elementi musicali genera la varietà e (spero) la ricchezza del brano e, al contempo, allontana lo spettro della ridondanza, nemesi di ogni arte contemporanea.
categoria: Musica sinfonica
vedi anche: orchestra